Ivan Rossi: passione musicale e ingegneria sonora

Occupandosi di musica succede spesso di conoscere le persone prima di incontrarle davvero. Ad esempio posso dire di aver conosciuto Ivan Rossi ben prima di stringergli la mano davanti ad una macchinetta del caffè e non mi riferisco solo al fatto, abbastanza generico e sterile, di “sapere chi era”. Attraverso i dischi che avevo ascoltato conoscevo già la sua passione per la musica, la sua attenzione ai dettagli e il suo sconsiderato amore per quelle particelle che muovendosi nell’aria sono la causa di ogni esperienza sonora. Ora che ho avuto l’occasione di farci due chiacchiere capisco che non mi sbagliavo affatto…

Come hai iniziato a fare ciò che fai?
IR –  Tutto è nato da una grande (e insana) passione per la musica, come penso accada per chiunque faccia questo mestiere. Mentre studiavo ingegneria elettronica a Pisa ho iniziato a frequentare (a dire il vero ci trascorrevo interi pomeriggi!) la Wide Records – storico negozio di dischi ormai, ahimè, chiuso – dove ascoltavo tantissima musica: dagli Autechre al jazz, al postrock e nel frattempo suonavo chitarra e synth in un paio di gruppi. A metà anni ’90 ho frequentato il mio primo corso per fonici con Sergio Taglioni, presso lo StudioLab di Pisa, e da lì è cominciata la solita trafila: live di infimo livello, demo di gruppi di amici, giornate passate a “spippolare” con synth e campionatori. Immediatamente dopo la laurea mi sono iscritto alla SAE di Milano; dopo il diploma ho iniziato a insegnare lì e a lavorare come ingegnere residente all’Aprico Studio dei Pooh, a Milano. Quasi contemporaneamente è nato 8brr.rec, il mio studio mobile. Comunque ti confesso che ciò che a folgorarmi letteralmente è stato un liveset dei Cyclo, nel 2001. Da quel preciso istante ho deciso di fare della musica la mia professione.

Qual e’ la cosa che odi di più del tuo lavoro?
IR – Che gli altri non capiscano quanto lo ami. Senza retorica, questo è un mestiere totalizzante e spesso mi trovo a trascurare tutto il resto, compresa la mia vita privata. è veramente difficile spiegare perché non ci sono sabati e domeniche, né feste comandate, e che qui non si tratta di lavorare le classiche otto ore al giorno. Mia moglie dice che sembra che io stia “salvando il mondo”! Chiaramente non facciamo i chirurghi, ma alcune volte, dall’esterno, può sembrare di sì. Il problema è che passando 12 ore al giorno in studio paradossalmente è impossibile ascoltare musica diversa da quella alla quale sto lavorando. Per tenermi aggiornato ho la mia A&R di riferimento: mia moglie Stefania. Non so come faccia, ma scova sempre dei gruppi grandiosi. Dovrebbe farne una professione, esistesse ancora la discografia…
Detto questo, le cose che odio di più, non esattamente in quest’ordine (ma ci andiamo vicini), sono:
1. fare il “compo” delle voci;
2. quando arriva – e arriva quasi sempre, in mezzo al mix di un pezzo – il momento in cui “ci vorrebbe un effetto pazzesco, tipo, hai presente…?”. E solitamente è un bel delay lungo;
3. i cavi rotti.
Posso dire quello che amo, invece? Lo dico: registrerei batterie per tutta la vita.

Per usare un eufemismo hai lavorato su una selezione abbastanza eclettica di dischi (se volessimo sintetizzare il concetto dai Pooh agli OvO ce ne passa…). Quali sono le differenze tra i vari progetti? Quali le similitudini?
IR – Quello che non cambia è il mio approccio. Mi preparo allo stesso modo, pianifico le sessioni allo stesso modo, cerco di essere trasparente allo stesso modo. Il mio metodo non cambia. Al contrario cerco di non imporre mai un suono o delle scelte preconfezionate, anche perché molti dei progetti ai quali ho lavorato non sono inquadrabili in un vero è proprio genere e quindi spesso mi sono trovato a non avere riferimenti.
Non ho preset mentali né operativi, ma provo a immaginare ogni volta dove mi piacerebbe arrivare e in che modo.
In poche parole l’approccio e il metodo sono uguali, il modo in cui cerco di arrivare alle cose è estremamente differente e strettamente legato al progetto. Alcune volte funziona una presa diretta, altre overdub selvaggio. Alcune volte bastano pochi elementi, altre serve il classico “muro del suono”. Lavorare con musica così diversa mi ha insegnato tanto e in particolare due cose: non si tratta del mio disco, si tratta del disco di qualcun altro, io servo al disco, lavoro per il disco;  chi sta dall’altra parte vuole che le cose funzionino in un certo modo e non gli importa come, gli importa che (funzionino). Questo per me significa trasparenza: ciò che metto di mio deve stare un passo indietro rispetto all’artista o al gruppo e dev’essere “cucito su misura”.

Cosa si cerca quando si registra un disco?
IR – Questa è difficile… Purtroppo, troppo spesso, si cerca di assomigliare a qualcun altro e la cosa chiaramente non può funzionare. Direi che l’importante è scegliere una direzione, avere voglia di ricercare. La scelta della direzione dipende dal progetto e spesso cambia in fieri. Quello che accade quando si registra – un pezzo e poi un disco – è determinato da un insieme di variabili così vasto che è impossibile da determinare a priori. Credo che la parola serendipity possa spiegare al meglio ciò che avviene: cerchi una cosa e ne trovi un’altra, spesso migliore, anche se molto lontana dalla prima… Quindi la chiave sta proprio nel “cercare”.
La fortuna aiuta gli audaci, mi verrebbe da dire.

(Ivan Antonio Rossi – foto di Dania Gennai)

Hai uno studio che ha un nome (8brr) ma non un luogo? Come si sviluppa la cosa?
IR – Ho fatto di necessità virtù: non potevo permettermi di avere uno studio e volevo lavorare a progetti più vicini al mio background. Verso la fine del 2004, quando avevo appena iniziato a lavorare con i Pooh, ho deciso di mettere su una specie di studio mobile: 8brr.rec studio. Cercavo un sistema per registrare ovunque ci fosse lo spazio adatto e una presa di corrente elettrica, ma con le caratteristiche e la qualità di un vero e proprio studio. Così ho iniziato a comprare preamplificatori, outboard, microfoni, cavi, cuffie, mac e protools, ho messo tutto nei rack e ho sviluppato una notevole tecnica di stivaggio nella mia fedele Ford Focus station wagon. In questo modo sono riuscito a registrare veramente ovunque e mi capita ancora di spostarmi, ogni tanto, specie nei teatri (l’anno scorso ho registrato gli Orange Room al teatro Fondamenta Nuove a Venezia, ad esempio). Nel frattempo mi sono proposto a gruppi e artisti con cui mi sarebbe piaciuto lavorare: Ronin, Bachi da pietra, Tanake, Virginia Miller, Zen circus e tanti altri. E’ iniziata così. Attualmente lavoro molto spesso in uno studio bellissimo a Lari (Pisa), il SAM (che tu conosci!) e a Milano ho una mia mixing room (la versione stanziale dell’8brr.rec, per così dire). Continuo però a portare in giro “la mia roba”… non posso farne a meno! Scaricare e caricare rack è l’unico sport che faccio e cablare nel tempo minore possibile è la mia versione delle parole crociate… tiene allenato il cervello.

Da un po’ di anni insegni alla SAE di Milano e penso che per gli studenti sia una grande fortuna potersi confrontare con persone che realmente fanno questo lavoro ogni giorno. Come hai iniziato?
Ho iniziato nel 2004, subito dopo il diploma. Il primo corso che ho tenuto è stato sulla Sintesi Analogica e su Max/MSP.
E’ avvenuto tutto abbastanza naturalmente, perché si trattava di cose che da anni facevo e studiavo per il gusto di farle e studiarle. Mi sono reso conto subito che anche insegnarle mi veniva molto semplice.
Adesso tengo un corso sulla storia della musica del ‘900 e uno sulla produzione Audio, Recording e Mixing.
Insegnare a fare un disco è molto più faticoso che farlo, ma mi obbliga a un certo rigore “accademico” e a continuare a studiare, cosa che mi piace. Spero di riuscire sopratutto a trasmettere l’amore e la passione per questo mestiere.

Insegnando avrai sott’occhio molte persone che si approcciano per la prima volta, o quasi, al mondo della registrazione e della produzione musicale: qual è il mito più comune?
IR – Senza dubbio i miti più comuni sono:
1. “Se quel produttore fa in questo modo, usa queste macchine, mette i microfoni così, allora lo faccio anche io e ottengo gli stessi risultati”;
2. l’importanza eccessiva data alla strumentazione e alla parola “analogico”. Molto spesso si riduce a una fascinazione puramente estetica: in genere vincono le macchine con i potenziometri più grandi e più esot(er)ici;
3. i musicisti, il pezzo, l’arrangiamento, questi sconosciuti… Spesso si trascura il fatto di avere a che fare con la musica;
4.. La convinzione che questo sia un lavoro più “glamorous” di quanto non sia in realtà.

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6 thoughts on “Ivan Rossi: passione musicale e ingegneria sonora

  1. antonio cupertino ha detto:

    Bella l’intervista ed il contenuto di tutto, tralasciando il fatto che ho conosciuto Ivan proprio al corso SAE!!

    Il punto due delle cose che odia Ivan, è il più veritiero!!

  2. Giovanni Napoli ha detto:

    Bella l’intervista, stupenda la parte sull’analogico!! ormai anche i software sono pieni di ” “controlli del rumore analogico”.

    Grazie ai vostri seminari ho appreso un sacco di cose
    e scoperto il mitico microfono della Geloso !!

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